La differenza con i vagabondi e altri senzatetto consisteva proprio nella scelta volontaria di un’avventurosa vita nomade e nell’adesione a un codice etico, che condannava ogni forma di violenza. Le condizioni di vita di questi romantici vagabondi erano piuttosto dure: viaggiavano illegalmente sui treni merci, dormivano in luoghi insoliti, pativano il freddo dell’inverno, e spesso erano perseguitati dalle forze dell’ordine, ma anche da comuni cittadini, che vedevano in loro un potenziale pericolo. 

Queste circostanze indussero gli hobo a sviluppare un codice, una criptica forma di comunicazione, grazie alla quale potevano segnalare i luoghi sicuri o pericolosi, dove si poteva trovare cibo e cure mediche oppure lavoro. L’uso di questi simboli risale all’incirca alla metà del 19° secolo, ma è in qualche misura adottato ancor oggi dalle persone senza fissa dimora. Il sistema di comunicazione è costituito da simboli che venivano tracciati con gesso o carbone, con mezzi di fortuna su supporti di ogni tipo, e che fornivano indicazioni ed avvertimenti utili, secondo un ideale di “fratellanza”, o semplicemente di mutuo soccorso, per segnalare informazioni come ad esempio luoghi o persone pericolose, piuttosto che luoghi sicuri o persone disposte ad aiutare gli hobo. 

Il nostro lavoro consiste in una serie di cartelli di "fortuna" disposti lungo la mostra: viene così rimarcata l'idea del viaggio compiuto dallo stesso hobo, che lo spettatore si trova a compiere con la sua visita entrando in contatto con questi segnali, e di conseguenza con l'esperienza vitale dello stesso hobo. Attraverso la realtà aumentata si rende possibile la visione di questi simboli e segni, che prima nascosti si svelano allo spettatore, che sceglie volontariamente di vederli.

Sofia Greatti - Giulia Fedrigucci